
Omelia di Sua Beatitudine Sviatoslav a Oslo durante la preghiera ecumenica per la pace con i leader religiosi dell’Ucraina e della Norvegia
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5)
Le parole dell’apostolo Paolo, che abbiamo appena ascoltato, sono la voce di Dio e il soffio dello spirito della Chiesa primitiva di Cristo. L’apostolo scrive queste righe ormai alla fine della sua vita e del suo ministero, trovandosi in prigionia a Roma. Probabilmente scelse con grande attenzione le parole e le immagini con cui voleva rivolgersi alla prima comunità cristiana in Europa.
Gli studiosi e i ricercatori che hanno analizzato questo testo affermano che l’autore ha incluso nell’epistola una citazione completa: un antico inno cristiano in onore di Cristo che probabilmente la Chiesa di Filippi conosceva bene e cantava durante le celebrazioni liturgiche. Non a caso l’apostolo introduce questo testo come un’esortazione pastorale: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». Probabilmente i pensieri di Gesù gli sembravano radicalmente diversi da quelli che in quella città dominavano come «mainstream».
A quel tempo Filippi era una colonia militare romana situata lungo una delle grandi arterie del mondo antico, la Via Egnatiana, che collegava l’Adriatico con l’Egeo e in seguito Roma con Costantinopoli. I suoi abitanti erano per lo più soldati o veterani dell’esercito romano, e la loro mentalità rifletteva i valori di una società militarizzata: gloria e potere collocavano l’uomo al vertice della piramide sociale, mentre i privilegi e i ranghi conquistati sul campo erano considerati diritti inviolabili che conferivano dignità.
In quella cultura, tutto spingeva verso l’alto, perché solo lì, secondo loro, risiedevano potere e gloria; e solo davanti a chi stava «in alto» si piegava il ginocchio di chi stava «in basso», volontariamente o per timore.
Ed ecco che a quei filippesi l’apostolo Paolo indica Cristo, il quale, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». A coloro che aspiravano a elevarsi, l’apostolo predica colui che spogliò se stesso! Cristo non considerava la sua esistenza nella natura divina come un «privilegio inviolabile». Parlando di Lui, Paolo usa la parola greca ἁρπαγμὸν — un termine che evoca la preda stretta tra gli artigli di un predatore, riluttante a lasciarla. L’apparizione di Cristo nella condizione di servo è dunque un movimento, un atto, un processo di svuotamento volontario di sé. Usando il verbo ἐκένωσεν, l’apostolo parla letteralmente di un «svuotamento»: una rinuncia a ogni potere e privilegio derivante dalla sua uguaglianza in divinità con Dio Padre. Il fine di questa discesa del Figlio di Dio è la morte sulla croce — la più vergognosa e umiliante delle morti, riservata come punizione agli schiavi («servile supplicium»).
Paolo annuncia ai filippesi: «…noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1, 23–24). L’apostolo indica il paradosso divino: la crocifissione, punto estremo di umiliazione e discesa, diventa momento di glorificazione e ascensione! Il momento di vergogna agli occhi umani si trasforma nel momento in cui il Padre glorifica suo Figlio, dandogli il «nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore»!
Cari in Cristo! Oggi l’Ucraina, il nostro popolo e le nostre Chiese durante questa guerra percorrono la via della «kenosis», di cui ci parla questa parola di Dio. Ogni perdita di familiari o persone care, ogni città e villaggio distrutto lasciano un vuoto nel nostro cuore che è impossibile da colmare. Il mondo intero contempla la tragedia dell’Ucraina: alcuni con stupore, altri con indifferenza; altri ancora alzano le mani nell’impotenza e trasformano il nostro dolore e la nostra sofferenza in materiale per battaglie mediatiche o manipolazioni, usandolo per polarizzare le proprie società o trarne dividendi politici.
Oggi il nostro popolo vive la sua vera crocifissione davanti agli occhi della comunità mondiale. E ci sembra che proprio di noi parla l’apostolo Paolo quando dice: «Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (cfr. 1 Cor 4, 9). Ma la potenza e la gloria della Croce del Signore si manifestano nelle nostre sofferenze e nella nostra parola di speranza — per l’Ucraina e dall’Ucraina — all’umanità di oggi!
Sanguiniamo e ci chiediamo ancora una volta: Dio, perché? Forse questa domanda — domanda sul perché proprio noi, ucraini, dobbiamo essere crocifissi oggi davanti agli occhi del mondo intero — è al centro dell’attenzione di tutte le persone di buona volontà, credenti e non. Dio, perché altri popoli vivono, vanno avanti, gioiscono, crescono, mentre noi ogni notte dobbiamo morire? Perché in Ucraina scorre il sangue dei neonati? Dio, perché?
Probabilmente otterremo la risposta definitiva a questa domanda nel Giudizio Universale, quando sarà rivelato tutto ciò che è nascosto. Ma la chiave per comprendere questa tragedia è la Croce vivificante e preziosa del Signore.
Forse una delle risposte più profonde a questa domanda l’abbiamo ascoltata a Kyiv durante la colazione di preghiera in occasione del Giorno dell’Indipendenza. Allora in Ucraina erano venute molte persone da tutto il mondo per pregare insieme a noi, con le nostre autorità, per ascoltare la parola di Dio e celebrare il Giorno dell’Indipendenza della nostra Patria. È intervenuto un padre, Maksym Kulyk di Kryvyi Rih, che ha vissuto una tragedia simile a quella della famiglia Bazylevych di Lviv. In una notte, durante un attacco missilistico russo, ha perso la moglie e tre figli; la più piccola, Uliana, aveva solo due mesi.
E quel padre chiede: «Dio, perché mi è successo questo?». Qualcuno forse dice: è per i vostri peccati che dovete soffrire così. E lui risponde: «No, non è vero! Altri popoli che oggi vivono nell’abbondanza non sono più peccatori o meno peccatori del popolo ucraino. Secondo me, oggi il Signore eleva l’Ucraina attraverso la sofferenza e mette le nostre ferite davanti agli occhi di tutto il mondo. Egli dice a tutti coloro che vogliono stare dalla parte giusta della storia: ”Non distogliete gli occhi dalle sofferenze, dal sangue, dal dolore dell’Ucraina”. Poi, l’uomo continua: ”Proprio per questo il Signore vuole che oggi il mondo veda gli ucraini, veda il nostro cuore profondamente credente e scopra in tutti gli angoli del mondo l’anima credente dell’Ucraina”.
In noi si compie il paradosso divino già menzionato: la crocifissione, punto estremo di umiliazione e discesa, diventa momento di glorificazione e ascensione!
Oggi, insieme ai rappresentanti del Consiglio Panucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, vogliamo ringraziare i cristiani della Norvegia e tutte le persone di buona volontà per la solidarietà con l’Ucraina. Vi ringraziamo perché, mostrando la vostra compassione verso di noi, «avete in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (cfr. Fil 2, 5).
In mezzo alla tragedia di questa guerra, che è una bestemmia contro Dio e un crimine contro l’umanità, ricordiamo le parole del primo ministro portoghese, il marchese di Pombal. Dopo lo shock europeo per la tragedia del 1755, egli disse: «Seppelliamo i morti e nutriamo i vivi!». Sia questo il motto della nostra azione comune di carità cristiana per fermare la guerra e salvare l’Europa da un’altra tragedia. Possano le nostre sofferenze e la nostra testimonianza comune del Vangelo di Cristo per il mondo contemporaneo servire affinché «nel nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre». Amen.
† SVIATOSLAV